L’Iran rifiuta l’operazione di “chirurgia estetica” americano-irachena ma lascia aperto uno spiraglio per la collaborazione con gli Stati Uniti 1/6

Dall’Iraq, Elijah J. Magnier 

Tradotto da A.C. 

In seguito all’assassinio del brigadier generale Qassem Soleimani, capo della brigata Quds (Gerusalemme) del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Iraniana, la guida suprema Sayyed Ali Khamenei aveva promesso davanti al mondo, ma soprattutto per i suoi alleati, che il prezzo che gli Stati Uniti avrebbero dovuto pagare per questo omicidio sarebbe stato il loro ritiro dall’Asia Occidentale. Sayyed Khamenei esprimeva la sua opinione e i suoi desideri in veste di guida suprema. Ma questi desideri non sempre coincidono con il comportamento dello stato dell’Iran che deve avere relazioni con altri stati in funzione degli interessi nazionali. C’è sempre flessibilità tra quello che dice il leader della rivoluzione e quella che lui vorrebbe fosse la condotta del governo del paese. 

E così quando Sayyed Khamenei ha fatto notare che non sarebbe stato accettato alcun incontro diretto senza una revoca delle durissime sanzioni da parte di Washington, ha posto un limite invalicabile, a cui il governo 

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avrebbe dovuto attenersi, che non necessariamente include tutte quante le sanzioni ma quelle di fatto più importanti. Da qui prende il via il dialogo indiretto di Vienna tra gli iraniani e quelli che avevano firmato l’accordo sul nucleare (JCPOA) ma non si erano ritirati unilateralmente come aveva invece fatto l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. 

Benché Sayyed Ali Khamenei non abbia definito una scadenza per il ritiro di tutte le truppe statunitensi dall’Asia Occidentale, non c’è alcun dubbio che oggi l’Iran sia disposto a sedersi al tavolo negoziale insieme al suo nemico se l’esito dei colloqui può migliorare la situazione economica del paese. Per l’Iran l’amministrazione americana non è assolutamente affidabile, indipendentemente da chi si trovi in cima alla piramide, sia esso repubblicano o democratico. Sa benissimo che potrebbe in qualunque momento annullare accordi internazionali, ignorando bellamente le leggi internazionali. Sta di fatto però che in parecchie circostanze le guide supreme, l’Ayatollah Khomeini prima e Sayyed Ali Khamenei poi, hanno permesso che lo stato incontrasse gli americani, sempre allo scopo di favorire gli interessi del loro paese anche se, dal punto di vista dell’Iran, lo spettro della guerra con gli Stati Uniti aleggerà sempre, perlomeno fino a quando le truppe di Washington saranno presenti nella regione.

I vertici iraniani sanno che l’amministrazione guidata da Biden ha davanti a sé molte sfide, a livello nazionale e non solo e che le sue urgenze sono la Russia e la Cina. Ma per Teheran l’urgenza primaria è il suo benessere e non è perciò disposta a tenere in considerazione le priorità di Biden. Per questo motivo l’Iran non lascerà che gli Stati Uniti si rilassino in Iraq e continuerà ad appoggiare i suoi alleati in Yemen, Siria, Libano e Gaza. 

In Iraq le autorità del paese stanno promuovendo una specie di “chirurgia estetica” da applicare alla presenza delle truppe americane, un compromesso tra quello che vuole l’Iran e quelli che gli iracheni individuano come i loro interessi. Suggerire di rimpiazzare le truppe americane con una “NATO europea” è un escamotage per comunicare a Biden che il ritiro non fa parte dei piani dell’Iraq. Indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un accordo sul nucleare, per gli Stati Uniti e le loro truppe una Mesopotamia in pace nei prossimi mesi è solo un sogno se non avviene il ritiro o la sostituzione da parte della “NATO europea”.

Ma una fedeltà totale e un ritorno all’accordo sul nucleare faranno indubbiamente da freno all’aggressività della resistenza irachena nei confronti delle truppe americane che certamente non lasceranno la Mesopotamia nelle mani della Cina, della Russia e dell’Iran. 

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