
Di Elijah J. Magnier: @ejmalrai
Tradotto da Alice Censi
Da circa dieci anni, ogniqualvolta in Iraq sta per formarsi un nuovo governo e quindi bisogna eleggere un presidente del parlamento, un presidente della repubblica e un primo ministro, gli inviati degli Stati Uniti e dell’Iran si danno un gran daffare per riuscire a influenzare queste elezioni e la formazione di coalizioni politiche allo scopo di portare al potere chi ritengono loro amico. L’Iran viene demonizzato dagli Stati Uniti e dai principali mezzi di informazione perché in genere riesce a portare al potere i suoi alleati. Se da un lato in Iraq l’Iran gode di un forte sostegno a livello ideologico tra le forze di sicurezza , dall’altro ha tutti i mass media contro.
La lotta tra Stati Uniti e Iran ha iniziato a scaldarsi il 25 ottobre quando i dimostranti hanno invaso le strade di molte province irachene chiedendo, giustamente, delle modifiche alla costituzione, delle serie riforme politiche, la fine dell’endemica corruzione e che finalmente venissero soddisfatti i bisogni primari di tutta la popolazione. Il Grande Ayatollah Sayyed Ali al-Sistani ha detto chiaramente che queste legittime richieste non devono essere usate da potenze internazionali (USA) e regionali (Iran) per giustificare un loro intervento in Iraq. Cosa riserva il futuro all’Iran e agli Stati Uniti in Iraq?
Lunedì 11 novembre qualcuno al potere in Iraq ha espresso la sua convinzione che alle Nazioni Unite fosse stato chiesto, da parte degli Stati Uniti, di sondare l’opinione del Marjaiya di Najaf nei confronti dei manifestanti e quale soluzione lui riuscisse a intravedere per mettere fine alla loro lotta contro il governo. Jeanine Antoinette Hennis-Plasschaert, una politica olandese, rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per l’Iraq dal 1° novembre 2018, incontrava infatti il Grande Ayatollah Sistani nella sua casa di Najaf. Qualche giorno dopo, il 14 novembre alle ore 20, il comandante della brigata Gerusalemme dell’IRGC ( Corpo delle Guardie della Rivoluzione Iraniana) Qassem Soleimani atterrava all’aeroporto di Najaf e si recava da Sayyed Sistani per discutere su come trovare una soluzione ai disordini nel paese. La stessa sera Soleimani tornava a Baghdad dopo aver ottenuto delle chiare risposte : le riforme sono inevitabili e vanno calendarizzate e gli Stati Uniti e l’Iran devono smettere di intervenire perché le proteste sono sostanzialmente sincere e i manifestanti chiedono cose giuste.

Quello che vuole il Marjaiya di Najaf è esattamente ciò che chiedono i dimostranti:
_ Anche se l’attuale parlamento non rispecchia la volontà della popolazione e quello che chiede, dovrà lavorare, in un periodo di tempo chiaramente stabilito, ad una nuova legge elettorale che permetta ad ogni iracheno che ottenga un numero sufficiente di voti, di diventare un membro del parlamento o di poter essere eletto come primo ministro. Questo incarico non dovrà essere riservato solo agli appartenenti ai partiti politici precedentemente formati e definiti come “squali”. Non è possibile sciogliere il parlamento prima dell’approvazione di una nuova legge elettorale e della modifica della costituzione; sciogliere subito il parlamento comporterebbe il rischio di un vuoto di potere legislativo.
_Designare una nuova, indipendente commissione elettorale non intaccata dalla corruzione o da legami con i partiti politici. Le decisioni dell’ultima commissione elettorale furono contestate con accanimento; almeno una dozzina di membri del parlamento (MP) furono accusati pubblicamente e considerati non eleggibili ma guarda caso oggi sono in carica e godono del prestigio e di tutti i vantaggi offerti da questo titolo.
-Mettere in atto le necessarie modifiche costituzionali basandosi sull’articolo 142 per rettificare articoli discutibili e decidere sull’articolo 140 relativo a Kirkuk.
-Definire l’articolo 76 e il significato di “la più grossa coalizione” col potere di nominare il primo ministro.
-Solo dopo aver trovato un accordo su una nuova legge elettorale e sulle modifiche da apportare alla costituzione il parlamento o il primo ministro dovrà applicare l’articolo 64 e sciogliere il parlamento con l’assenso del presidente della repubblica e indire nuove elezioni entro 60 giorni dalla data dello scioglimento.
Questo è l’unico programma che il Marjaiya e i dimostranti accetterebbero e così mentre verrebbe evitato un vuoto di potere, le richieste di chi protesta potrebbero iniziare ad essere accolte. Il Marjaiya in realtà chiede di immettere nuova linfa nella leadership politica dai tempi del mandato a primo ministro di Ibrahim al-Jaafari e di Nuri al-Maliki ma senza successo. La forza di chi protesta ha fornito al Marjaiya l’appoggio necessario per diventare la loro voce, il paladino dei dimostranti.

Corruzione, malgoverno, faziosità, nepotismo e incompetenza tutte insieme hanno caratterizzato tutti i leader iracheni che sono andati al potere dall’inizio dell’occupazione americana del 2003. Gli iracheni in esilio tornavano nel paese dopo la caduta di Saddam senza avere esperienza politica. Adel Abdel Mahdi quando era vice presidente mi disse “ dovremmo tornare a fare l’opposizione perché non sappiamo come si governa un paese”.
Il primo ministro Abdel Mahdi è uno dei pochi politici che il Marjaiya di Najaf accetta. Ha voglia di governare il paese e sta cercando di varare importanti riforme. Purtroppo si trova di fronte un leader politico come Moqtada al-Sadr che ha 53 MP e la maggior parte dei ministri e dei direttori generali nell’amministrazione. Moqtada agisce contro Abdel Mahdi esattamente come farebbe un leader dell’opposizione. Il comportamento di al-Sadr non è una novità per gli iracheni e lui è quello che ha dato il via alla narrativa anti iraniana nelle strade del paese. Ha sponsorizzato le dimostrazioni a Baghdad senza avere un vero obbiettivo e adesso sta puntando le armi contro gli Stati Uniti. Nuove elezioni parlamentari per lui sarebbero deleterie infatti si prevede che non riuscirebbe ad ottenere neppure la metà dei seggi che ha oggi nel parlamento e nel governo.
C’è un divario enorme tra i leader politici e la popolazione. La nomina dei due presidenti e del primo ministro avviene in seguito agli accordi tra i grandi partiti politici e la gente percepisce di non avere un ruolo in questa scelta. I dimostranti sono nelle strade a chiedere sacrosante riforme e rivendicano il loro ruolo nella futura costruzione dell’Iraq. I politici devono sapere che la popolazione li giudicherà per quello che fanno. Non possono continuare impunemente a rubare tutto ciò che riescono ad afferrare.

Il governo non è riuscito a dialogare in modo adeguato con i dimostranti e ha fatto un errore madornale quando ha usato la forza. I primi sette giorni infatti sono stati catastrofici :107 morti e 6000 feriti. Un numero di vittime inaccettabile per entrambe le parti, civili e forze di sicurezza. Le armi più usate in questi giorni da chi protesta sono le “daabel” (pietre) che non provocano grossi danni alle forze di sicurezza.
Al-Hashd al-Shaabi, le “Forze di Mobilitazione Popolare” che sono il bersaglio prescelto dagli Stati Uniti e dai principali mezzi di informazione che li definiscono “i rappresentanti dell’Iran” sono rimaste lontane dalle strade, nelle loro caserme. Questa loro mossa ha evitato le accuse di un coinvolgimento iraniano nelle azioni di contenimento dei dimostranti in Iraq.
Alcuni dimostranti scandiscono lo slogan “ fuori l’Iran, Baghdad resterà libera” mentre altri bruciano le bandiere degli Stati Uniti e di Israele. Sono atti che non simboleggiano affatto le reali richieste di riforme della popolazione, azioni sporadiche enfatizzate dai principali mezzi di informazione a scopo propagandistico.
Ingenuamente gli analisti credono che l’Iraq stia fallendo come stato mentre invece grazie a queste proteste si sta rafforzando. I leader dei blocchi politici si stanno stringendo attorno al paese, vogliono che diventi ricco sotto la loro guida e non permetteranno certo che collassi. Questi analisti che tra l’altro si oppongono al ritiro americano dall’Iraq, pensano che gli iracheni siano convinti che gli Stati Uniti vogliano un Iraq sovrano, stabile e democratico. In realtà gli Stati Uniti hanno il controllo del petrolio iracheno e solo a malincuore accettano le indispensabili relazioni di Baghdad con l’Iran. Quello che gli Stati Uniti veramente vogliono è controllare l’Iraq, impedire ai suoi dirigenti di avere rapporti con l’Iran, la Russia o la Cina come ha detto il presidente Barham Saleh. Gli Stati Uniti vorrebbero che l’Iraq accettasse di essere il bersaglio dell’aviazione israeliana e permettesse a Tel Aviv di assassinare i suoi capi militari. Vorrebbero anche che l’Iraq smettesse di comprare energia elettrica dall’Iran (una scelta che scatenerebbe una vera e propria rivoluzione se le province del sud non avessero più l’elettricità) e chiudesse i confini con la Siria. E questo sarebbe il concetto di sovranità secondo gli analisti degli istituti di ricerca (think tank) statunitensi.

Baghdad considera gli Stati Uniti un alleato necessario e l’Iran un vicino permanente. L’Iran è stato il primo a sostenere la lotta all’ISIS in Iraq nel 2014 mentre gli Stati Uniti stavano alla finestra. Gli Stati Uniti hanno una presenza militare in Iraq, gli vendono le armi e addestrano le sue forze armate. Baghdad preferisce averli come alleati e non come nemici per paura delle conseguenze. Non molto tempo fa gli Stati Uniti sarebbero stati pronti a dividere l’Iraq e i politici iracheni temono la loro scelleratezza.
Sta di fatto che gli Stati Uniti e l’Iran si stanno affrontando in Mesopotamia con ogni mezzo possibile per conquistare la fedeltà del governo iracheno. L’importanza geo-strategica dell’Iraq, le sue abbondanti risorse energetiche fanno sì che questo paese sarà sempre oggetto del contendere.
Il segretario di stato americano Mike Pompeo ha affermato che “ gli iracheni (e i libanesi) rivogliono indietro il loro paese” e che hanno “scoperto che il regime iraniano esporta corruzione”. Pompeo in questo modo accusa l’attuale governo iracheno di essere monopolizzato dall’Iran e l’Iran di orchestrare la corruzione. Si sbaglia di grosso. E’ il governo americano nei fatti quello che lavora a fianco dell’Iraq quotidianamente. Lui cerca anche di dimostrare che i manifestanti ne hanno fin sopra i capelli dell’Iran e che l’attuale governo dovrebbe andarsene. Pompeo sta cavalcando l’onda delle proteste senza essere stato invitato a farlo.
Ai dimostranti in generale importa ben poco degli Stati Uniti e dell’Iran, le loro priorità sono riferite al loro paese e non all’esterno. Quello che cercano di fare gli Stati Uniti è risolvere il loro conflitto con l’Iran in Iraq. Gli Stati Uniti si affidano ai mezzi di informazione e ai resoconti degli analisti, ai mezzi di comunicazione social e ai video che enfatizzano lo scontento popolare e l’atteggiamento ostile nei confronti dell’Iran che si insinua tra chi protesta. Così l’amministrazione americana è portata a pensare che facilmente una futura leadership al governo in Iraq sarà anti iraniana. Le cose stanno così?

Molto probabilmente il nuovo governo non sarà più così vicino all’Iran come lo erano gli ex primi ministri Ibrahim al-Jaafari e Nouri al-Maliki ma non sarà neppure come quello di Haidar Abadi, il primo ministro con poca simpatia per l’Iran (anche se non dichiarata). La “Repubblica Islamica” è soddisfatta dei traguardi raggiunti in Iraq e mantiene i contatti con gruppi influenti. Per gli iracheni non sono certo gli Stati Uniti l’alternativa all’Iran; la Mesopotamia non tornerà ad essere radicalmente antagonista all’Iran come succedeva con Saddam Hussein. L’unica soluzione è che gli Stati Uniti e l’Iran accettino che l’Iraq rimanga un paese stabile. I loro rispettivi alleati terranno sotto controllo gli interessi dell’Iran e degli Stati Uniti senza necessariamente scontrarsi.
Se gli Stati Uniti continuano a permettere a Israele di colpire i suoi obbiettivi in Iraq o se cercheranno di minare l’unità dello stato, si troveranno di fronte un intero paese che chiede loro di andarsene. E questo aprirà le porte alla Russia e alla Cina. Gli Stati Uniti devono accettare che l’Iraq non sarà mai uno stato vassallo.
Il primo ministro iracheno è stato in Cina per stipulare un accordo del valore di milioni di dollari, ha aperto il valico di frontiera con la Siria ad al-Qaem, ha accusato Israele di aver bombardato l’Iraq e assassinato comandanti di Hashd al-Shaabi, ha permesso che il gas iraniano raggiungesse Bassora, ha comprato elettricità dall’Iran per le province del sud, ha chiuso un occhio sulle vendite di petrolio iraniano, ha lasciato passare il petrolio diretto in Siria per aiutare Damasco, ha sostenuto Hezbollah in Libano e protetto l’integrità di Hashd al-Shaabi. Ognuna di queste azioni è bastata a scatenare la rabbia degli Stati Uniti nei suoi confronti e per questo vorrebbero togliergli il potere e arrivare a nuove elezioni. Ma i nuovi leader non avranno alternative: continueranno a far arrivare il gas iraniano, a godere dei benefici ottenuti dall’apertura dei confini con la Siria, a rendere effettivi gli accordi già fatti con la Cina e la Russia ma contemporaneamente a tenersi gli Stati Uniti come potenziale alleato. Washington dovrà convivere con questa realtà e smettere di credere che chi protesta abbia il potere di cambiare le relazioni tra Iraq e Iran o che possa obbligare l’Iraq ad agire contro i suoi interessi.
Gli sciiti in Iraq sono la maggioranza e il 65% del potere legislativo ed esecutivo del paese è nelle loro mani. E’ un fatto positivo per l’Iran ma non necessariamente negativo per gli Stati Uniti. Casomai Washington volesse qualcosa in più di una relazione che apporti dei vantaggi a entrambi, (Stati Uniti e Iraq), dovrà mettere in conto una possibile perdita di molte cose di cui gode attualmente.
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