
Di Elijah J. Magnier: @ejmalrai
Tradotto da: C.A.
Oggi in Iraq lo scontro in atto tra i gruppi politici ha raggiunto un livello critico e nessun paese riuscirebbe in una tale situazione a non esserne scosso. Gli Stati Uniti non devono certo fare grandi sforzi per seminare zizzania tra i partiti perché questi sono già di fatto divisi al loro interno. L’eliminazione del generale maggiore Qassem Soleimani dalla scena irachena (il suo scopo era quello di mettere d’accordo i vari partiti politici) è stato un evento sicuramente importante ma non ha segnato una svolta. Non ha modificato significativamente il quadro politico iracheno dato che neppure lui era riuscito, due mesi prima che gli Stati Uniti lo assassinassero, a convincere i partiti ad accordarsi sul nome di un nuovo primo ministro in seguito alle dimissioni di Adel Abdel Mahdi. I politici iracheni mettono le loro divergenze prima di qualsiasi altra cosa per salvaguardare la loro influenza politica, indifferenti al loro dovere nei confronti del paese che avrebbe un gran bisogno di essere unito per poter far fronte alle grandi sfide che ha davanti.
Il primo ministro Abdul Mahdi non sbagliava quando tempo fa mi disse: “ noi non sappiamo governare. Siamo invece bravi a fare opposizione a chi governa”. Nessuno al potere oggi in Iraq sarebbe in grado di portar fuori il paese dalla drammatica crisi finanziaria in cui si trova, dal livore che c’è a livello politico e dai problemi sanitari derivanti dalla diffusione del COVID-19 perché mancano le risorse finanziarie. Le rivolte nelle strade in cui i dimostranti chiedevano migliori condizioni di vita torneranno e più potenti di prima. Il prezzo così basso del greggio sta compromettendo le entrate dell’Iraq. Il deficit dello stato è ormai alle stelle, il debito estero costante, il bisogno di aiuti da parte della Banca Mondiale, controllata dagli Stati Uniti, sempre più impellente. Ma l’America non darà nessuna assistenza finanziaria a meno che non vengano accolte le sue richieste e venga eliminata dall’Iraq l’influenza iraniana.
L’America non accetta la politica irachena fondata sull’equilibrio. Per l’Iraq le relazioni con gli Stati Uniti hanno la stessa importanza di quelle con il vicino Iran. Ma Washington vuole l’Iraq tutto per sé secondo il principio “dopo di me il diluvio”, un’ espressione attribuita al re francese Luigi XV che indica come si fosse autoproclamato centro dell’attenzione: nessun altra considerazione avrebbe avuto valore, tutto irrilevante tranne la sua ossessione.

Gli Stati Uniti stanno appoggiando il Kurdistan iracheno ampliando la loro base militare “Harir” e costruendone un’altra, grande, al confine con l’Iran. Sembrerebbe che il messaggio diretto a Baghdad sia inequivocabile: le truppe degli Stati Uniti resteranno nonostante la resistenza di quei settori dell’Iraq soggetti maggiormente all’autorità di Baghdad. Nel Kurdistan l’autorità del governo centrale non è così forte come in altre parti del paese. Gli Stati Uniti sostengono i Peshmerga curdi e forniscono loro armi attraverso i loro alleati, gli Emirati Arabi Uniti: quattro carichi di armi sono recentemente arrivati a Erbil.
Non è escluso che l’amministrazione americana, se Trump verrà rieletto, aiuti il Kurdistan a staccarsi dall’Iraq, e potrebbe anche sostenere una eventuale secessione curda nel nordest della Siria. Nella zona della Siria che gli Stati Uniti stanno occupando con l’aiuto dei curdi, i militari americani si stanno impossessando del petrolio siriano anche se ormai il suo prezzo non è più nemmeno sufficiente a pagare le spese che richiede il loro schieramento attorno ai pozzi, il che fa pensare che ci siano altre ragioni per la loro presenza, probabilmente legate a Israele.
I dimostranti iracheni definiscono gli Stati Uniti il “Joker”, una forza potente in grado di influenzare gli eventi iracheni, spesso di nascosto. Questo influsso si è manifestato durante le dimostrazioni dell’anno scorso ma ancor di più nel movimento di indipendenza curda. Le autorità curde hanno già rifiutato di attenersi alla decisione costituzionale del parlamento iracheno (un atto di ribellione contro l’autorità di Baghdad) che chiede il ritiro delle truppe americane dall’Iraq.

Chi prende le decisioni a Baghdad è convinto che il presidente Trump agisca solo nell’interesse del suo paese. Trump ringraziava Adel Abdel Mahdi per aver protetto l’ambasciata americana a Baghdad quando veniva attaccata e, tramite sempre Abdel Mahdi, mandava un messaggio positivo all’Iran ma nonostante ciò dopo alcuni giorni ordinava di uccidere il generale iraniano Qassem Soleimani. L’amministrazione americana lavora anche per Israele in Iraq e non cerca solo di costruire una forte e amichevole relazione tra i due paesi (Stati Uniti e Iraq) come invece dichiara.
Trump non dava ascolto alle proteste di Abdel Mahdi quando quest’ultimo lo chiamava personalmente per comunicargli che gli attacchi alle forze di sicurezza avevano mandato su tutte le furie gli iracheni e che qualunque azione decisa unilateralmente avrebbe avuto tremende conseguenze per tutti. Trump preferisce ascoltare i suoi consiglieri che considerano i leader mediorientali non dei loro alleati ma dei loro subalterni. Questo atteggiamento borioso va a vantaggio dell’Iran che sa bene come approfittare degli sbagli americani, hanno detto le fonti.
Sicuramente l’Iraq è in piena crisi, i litigi al suo interno sono infiniti e si aggiungono ad una situazione economica e sanitaria difficile che affligge tutti i paesi. Ma i pericoli maggiori gli vengono dall’amministrazione Trump che pensa solo a sottomettere gli stati usando la forza. Gli Stati Uniti continuando a seminare vento non raccoglieranno che tempesta e tutto riusciranno a fare tranne che garantirsi una solida alleanza con l’Iraq.
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