
Di Elijah J. Magnier
Tradotto da A.C.
In Iraq sono stati allestiti 8.273 seggi elettorali dove i 25 milioni di iracheni aventi diritto al voto hanno potuto scegliere, tra 3227 candidati (è il numero di coloro che si sono presentati), i 329 membri del futuro parlamento del paese. L’Iraq si prepara ad annunciare i risultati delle sue quinte elezioni svoltesi, per la prima volta, alla presenza di osservatori internazionali. Gli osservatori esterni sono sempre stati rifiutati in passato dai politici del paese con il pretesto di salvaguardare la sovranità irachena. Quello che oggi molti politici temono più di tutto e si aspettano, è la vittoria del leader sadrista, Sayyed Muqtada Al-Sadr. Lo temono fondamentalmente per le sue dure prese di posizione in politica interna e per come vede le relazioni con gli altri paesi, inclusi quelli più vicini.
I mezzi di informazione internazionali hanno parlato spesso di Sayyed Muqtada e della sua condotta, delle critiche dei suoi oppositori, senza avere consapevolezza della sua visione politica e di come lui vorrebbe che si posizionasse l’Iraq. Ma qual’è l’effettiva visione politica di Sayyed Moqtada? Come mai è diventato il principale nemico dei politici sciiti iracheni che stanno conducendo una feroce guerra mediatica contro i suoi sostenitori?
Sayyed Muqtada Al-Sadr è il figlio più giovane del Marja’ Sayyid Muhammad Sadiq al-Sadr ucciso dal regime di Saddam Hussein. Ha ereditato dal padre una solida e nutrita base popolare, soprattutto sciiti poveri, indiscutibilmente fedele a lui.
Quando nel 2003 gli Stati Uniti occuparono l’Iraq, il giovane Moqtada non aveva ancora quell’esperienza politica necessaria a dirigere un grosso partito popolare totalmente devoto alla famiglia al-Sadr. L’ex primo ministro Ibrahim al-Jaafari, Ahmed al-Shalabi (uno di quelli che incoraggiarono gli Stati Uniti ad occupare l’Iraq) e moltissimi politici si avvicinarono a lui nella speranza di sottrargli un buon numero di sostenitori. Nessuno possedeva una tale popolarità e un così folto numero di fedeli seguaci come Moqtada.
Sayed Mohamad Sadeq al-Sadr era stato molto critico nei confronti del silenzio dell’autorità suprema di Najaf e l’aveva apostrofata con il termine “Marjaiya silenzioso”, definendosi lui il “Marjaiya vocale”. Le sue critiche erano essenzialmente dirette contro i leader religiosi che non erano stati in grado di opporsi alla tirannia di Saddam Hussein. E il figlio, Moqtada, nei primi anni dell’occupazione americana seguì le orme del padre indossando il velo bianco come lui, un segno di disponibilità a morire se questo fosse stato il prezzo da pagare per non voler tradire il proprio credo.
Nei primi anni dell’occupazione Sayyed Moqtada prese il controllo di Najaf e della cosiddetta “Saddam City”, ribattezzata “Sadr City”, il quartiere più esteso di Baghdad, la capitale irachena. Divenne il primo politico religioso sciita, con residenza a Najaf, a sfidare apertamente l’occupazione americana chiedendo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq. Era il tempo in cui la maggioranza dei partiti sciiti era favorevole alla presenza delle truppe americane e le definiva alleate. Sayyed Moqtada è famoso per la sua resilienza, per non dire resistenza, contro l’occupazione. Fu il primo che criticò aspramente Iyad Allawi, il primo premier del governo ad interim installato in Iraq dagli Stati Uniti.
In questo modo Sayed Moqtada diventò il simbolo degli iracheni emarginati ma anche della resistenza all’occupazione statunitense, specialmente dopo che Paul Bremer, il capo dell’autorità provvisoria di coalizione in Iraq decise di chiudere il suo giornale “ Al-Hawza”. In realtà Bremer prese questa decisione in seguito alle dure critiche del Consiglio di Governo Iracheno (nominato dagli Stati Uniti), il governo provvisorio non riconosciuto e anche attaccato pubblicamente da Moqtada.
Il giovane leader sadrista fu il primo a chiedere il ritiro delle forze di occupazione invocando l’uso della forza dalla moschea Kufa, il luogo in cui suo padre aveva sfidato Saddam Hussein alla presenza dei suoi ufficiali dell’intelligence. Sostenne la necessità di indire elezioni libere e trasparenti per scegliere un parlamento iracheno che elaborasse la costituzione e nominasse un nuovo governo.
Sayyed Moqtada creò l’ “esercito del Mahdi” con basi a Najaf, Bassora, Amarah, Nassiriya e Kuf, una vera sorpresa per l’occupazione americana. L’equipaggiamento militare era scadente se paragonato a quello degli Stati Uniti, l’esercito più forte del mondo. Tuttavia non impedì a Moqtada di insistere nella sua dichiarazione di ostilità agli Stati Uniti e di combattere una seconda guerra nella città santa di Najaf. Quando a Najaf scoppiò la prima guerra Moqtada e i suoi seguaci non ne conoscevano l’arte ma erano fortemente convinti e motivati, avevano perciò tutto ciò che serviva per affrontare gli occupanti. E Paul Bremer decise che Sayed Moqtada andava arrestato o ucciso.
La sua determinazione nel combattere gli Stati Uniti gli attirò le simpatie dell’Iran che mandò Hajj Abu Mahdi al-Muhandes a Najaf per offrirgli l’assistenza della “Repubblica Islamica”, pronta ad armare e addestrare i sadristi fino a quando avrebbero condiviso l’odio per gli Stati Uniti.
Sayed Muqtada fondò le “forze speciali” e in segreto un gruppo denominato “ Asa’ib Ahl al-Haq” a capo di cui furono nominati l’ex portavoce del movimento, lo sceicco Qais al-Khazali e il suo vice del tempo, lo sceicco Akram al-Kaabi. Khazali operava sotto il comando di Sayed Muqtada e all’interno della sua cerchia dopo che, conclusesi le battaglie di Najaf, il gruppo dirigente sadrista si trasferì a Baghdad.
Sayed Muqtada andava e veniva dall’Iran poiché era convinto che le forze d’occupazione americane volessero assassinarlo. Ma gli Stati Uniti non sapevano nulla delle dinamiche interne all’Iraq e il complotto contro Muqtada fu architettato principalmente dai politici iracheni che sostenevano gli Stati Uniti. Il loro suggerimento fu quindi preciso, Sayed Muqtada rappresentava una minaccia a causa delle sue idee politiche e del suo rifiuto di qualsiasi influenza straniera in Iraq. L’uccisione del leader sadrista avrebbe fatto comodo a molti iracheni e avrebbe potuto frantumare la base del movimento.
Va detto inoltre che gli Stati Uniti osservavano e registravano molto attentamente il comportamento di Moqtada: l’appoggio dato a Hezbollah in Libano nei primi anni, la vicinanza all’Iran, l’opposizione costante alla presenza e all’egemonia americana in Iraq e inoltre il fatto che godesse di un’enorme popolarità. Erano elementi più che sufficienti a giustificare una sua eliminazione.
Quando lo scontro con gli Stati Uniti prese una brutta piega e le forze di sicurezza locali diedero la caccia ai sadristi con l’appoggio degli americani, Sayed Muqtada cercò rifugio in Iran. Ma nonostante la sua presenza nel paese, il leader sadrista non si piegò mai al volere dei dirigenti iraniani così si spostò in Arabia Saudita per incontrare il loro acerrimo nemico, il principe Bandar Bin Sultan provocando ovviamente il loro forte risentimento. Questa mossa di Moqtada portò l’Iran a cercare di spaccare il movimento sadrista e lo fece abbracciando lo sceicco Akramal Kaabi e incoraggiandolo a formare un suo partito, il movimento “Al-Nujaba”, lo fece anche con lo sceicco Khazali e il suo gruppo “Asa’ib Ahl al-Aq”: entrambi i gruppi appartenevano alla base sadrista. Inoltre, con una mossa estranea all’intervento iraniano, lo sceicco Muhammad al-Yacoubi, che un tempo faceva parte dell’entourage del padre di Moqtada, si portò via una fetta del movimento per formare il partito al-Fadilah.
La spaccatura incoraggiata dall’Iran provocò la collera di Sayed Muqtada che andò avanti nella sua campagna chiedendo ai dirigenti iraniani di smettere di interferire negli “affari dell’Iraq”. E sulla defezione dei dissidenti la sua posizione è sempre stata: nessuno nel movimento è obbligato a stare ai miei ordini. Chiunque voglia andarsene può farlo, questo non riuscirà a scalfire seriamente l’enorme base del movimento sadrista. In virtù della sua grande popolarità che sorpassa di molto quella di qualsiasi altro partito, Sayyed Muqtada, sempre più esperto in politica, è rimasto la figura dominante nell’arena irachena. Malgrado si sia sempre dichiarato nemico delle forze di occupazione statunitensi, non ha nessun problema di stabilire buone relazioni con Washington dopo l’annuncio del ritiro
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