L’attacco turco ai curdi in Siria: vincitori e vinti Parte 1/3

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Di Elijah J. Magnier: @ejmalrai

Tradotto da: Alice Censi

 

Il presidente Donald Trump ha dato l’ordine di iniziare il “ deliberato ritiro “ delle sue truppe dal nord-est della Siria (NES), una decisione che dovrebbe metter fine all’occupazione americana del territorio. Questa decisione ha accelerato la corsa dell’esercito turco e di quello siriano per il controllo del NES.

La Turchia ha fretta di stabilire una sua zona di sicurezza ( che si estenderebbe per 30-35 km) al confine con la Siria proprio nel territorio del nord-est occupato dalle forze statunitensi e attualmente controllato dai separatisti curdi. Il presidente Recep Tayyip Erdogan infatti sa benissimo a quali pressioni è sottoposto il suo alleato, il presidente degli Stati Uniti, per aver approvato l’operazione turca, un’offensiva che ha reso Trump ancora più impopolare nel suo paese e tra le élite occidentali.

Trump prendeva il controllo, in modo unilaterale, di una zona in Siria più grande della Svizzera. Senza essere stato invitato dal governo centrale, vi installava una dozzina ( e forse più ) di basi militari e aeree mantenendole operative malgrado la sconfitta dell’ISIS. Adesso ha deciso di ritirare un certo numero di militari permettendo così alla Turchia e ai suoi alleati dell’opposizione siriana di entrare in questo territorio. Il presidente americano e il suo omologo russo Vladimir Putin hanno bloccato una risoluzione redatta dall’Europa che condanna l’offensiva turca. Oggi, in virtù di questa operazione lanciata da Ankara, i vincitori sono più numerosi dei vinti e sarebbe un errore pensare che solo la Turchia ne abbia un tornaconto. Tutti i vincitori hanno i loro obbiettivi e le loro prospettive e devono valutare come trarre vantaggio da questa invasione turca.  

Con la decisione di ritirare 1.000 soldati dal NES, Trump di fatto rimescola le carte, libera la sua amministrazione da questo pesante fardello affidandolo alla Russia, alla Turchia e alla Siria ( e ovviamente ai loro alleati). La Russia deve muoversi velocemente, portare tutti quanti attorno al tavolo per  sistemare una situazione delicatissima che potrebbe diventare ancor più caotica dando così il via ad ulteriori scontri.  

E i curdi sono i grandi sconfitti: le Unità di Protezione Popolare (YPG ), braccio armato del Partito dell’Unione Democratica (PYD) attivo nella federazione curda del nord della Siria, il ramo siriano del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che sono stati classificati come organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti (dal 1997), dall’Unione Europea (dal 2002) e dalla NATO, dalla Turchia e anche da altri paesi.

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I curdi nel Levante:

I curdi vivono nel sud-est della Turchia, nel nord-est della Siria, nel nord dell’Iraq, nel nord-ovest dell’Iran e nel sud-ovest dell’Armenia. Con una popolazione stimata di 30 milioni, potrebbero essere la minoranza etnica più numerosa al mondo senza uno stato. Più della metà di loro vive in Turchia per cui non è proprio corretto definire l’attacco turco ai curdi siriani una “pulizia etnica”.

Il trattato di pace firmato a Losanna nel 1923 tra la Turchia e le potenze dell’Intesa negava ai curdi la possibilità di realizzare i loro sogni di avere finalmente uno stato indipendente, il “Kurdistan”. Le rivolte curde furono in seguito numerose ma le aspirazioni di questa minoranza non si concretizzarono mai. Tra queste ribellioni ricordiamo quella guidata da Sheikh Said nel 1925, la rivoluzione dell’Ararat nel 1930 guidata dall’armeno Ziylan Bey, uno dei più famosi ribelli delle montagne ( l’iracheno Mustafa Barzani attraversava il confine per unirsi alla rivolta) e il genocidio nel 1937-1938 di Dersim (leader della rivolta era Sayid Riza) dove vivevano curdi e aleviti ( oggi chiamata Tenceli ). L’ultima operazione fu eseguita per ordine di Mustafa Kemal Ataturk, al tempo presidente della Turchia, e viene oggi definita dal presidente Erdogan un “massacro”.

Nel 1974 Abdullah Ocalan dava vita ad un movimento proletario maoista, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) le cui lotte erano contro obbiettivi civili e militari turchi. Fino a oggi almeno 40.000 persone sono state uccise senza che i curdi abbiano raggiunto il loro obbiettivo di avere uno stato. Ocalan e 3.000 militanti del PKK stanno marcendo in prigione. Gli Stati Uniti, l’Europa e molti altri paesi classificano il PKK come un gruppo terroristico. “Il PKK è sulla lista dei terroristi stilata dall’Unione Europea ed è improbabile che venga tolto dalla lista” ha detto Federica Mogherini, alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri, nel marzo scorso.  

Quando la guerra in Siria iniziava nel 2011, i curdi siriani si dichiaravano neutrali ma rifornivano molte città assediate. Tutto cambiava nel settembre 2014 quando la città curda di Ayn al-Arab, per i curdi Kobane, veniva attaccata dallo “Stato Islamico” (IS o ISIS o ISIL o Daesh).

La Turchia negava  (per evitare una sollevazione interna) il permesso ai curdi turchi di attraversare il confine per andare ad aiutare i loro fratelli siriani ma apriva i confini con l’Iraq permettendo ai Peshmerga di entrare nella città mentre stava per cadere nelle mani dell’ISIS. I Peshmerga avevano il compito di dirigere gli aerei statunitensi contro l’ISIS con designatori laser in grado di individuare i bersagli. La città venne distrutta ma l’ISIS non riuscì ad occuparla e si ritirò nel gennaio 2015.

Nell’ottobre 2015 la coalizione a guida americana formava, addestrava e armava le cosiddette Forze Siriane Democratiche (FSD) formate anche da milizie arabe del luogo e comandate dai curdi. I curdi avevano buoni motivi per credere che finalmente i loro sogni si sarebbero realizzati dato che in quel momento la divisione dell’Iraq e della Siria sembrava realistica. Uno stato curdo pareva un obbiettivo raggiungibile e venne scelto il nome Rojava (Rojavaye Kurdistane), una delle quattro parti del Grande Kurdistan. Questo territorio si estende dalla città di Afrin nel nord-ovest fino ad al-Hasaka nel nord-est.

Nell’agosto 2016 la Turchia inseriva le sue truppe in Siria con l’aiuto dei suoi alleati nel paese e catturava la città di Jarablus. Questo metteva a rischio i piani curdi. Infatti circa due anni dopo la Turchia conquistava la città curda di Afrin riducendo il territorio del Rojava e provocando lo sfollamento di decine di migliaia di curdi.

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I curdi preferirono consegnare Afrin ai turchi piuttosto di permettere all’esercito siriano di difendere la città. Ci furono intense trattative tra i leaders curdi e il governo siriano a  Damasco, nella base russa di Hmaymeem e in altri posti. I curdi si rifiutavano di consegnare i miliardi di dollari guadagnati  con l’agricoltura in Siria e si rifiutavano di entrare nelle Forze Nazionali di Difesa siriane. Volevano una completa autonomia ma allo stesso tempo che l’esercito siriano fosse guardiano dei loro confini. Preferirono combattere e perdere piuttosto di restituire il territorio siriano in cui erano insediati al governo di Damasco. Optarono quindi per un’occupazione turca e questo fu il loro primo grande errore.  

Nel settembre 2015 quando la Russia fu convinta ad andare in Siria con la sua aviazione, era d’obbligo un coordinamento con gli Stati Uniti per evitare scontri. Ogni zona a est dell’Eufrate veniva considerata area controllata dagli Stati Uniti. A ovest del fiume invece il controllo era russo. Dopo aver sconfitto l’ISIS l’esercito siriano cercò di attraversare l’Eufrate con i suoi alleati per allontanare il gruppo terroristico dai giacimenti di gas e petrolio a nord di Deir-ezzour prima dell’arrivo degli alleati degli americani. A quel punto le truppe dell’esercito siriano venivano decimate dagli Stati Uniti. Più di 200 uomini furono uccisi a conferma del fatto che gli Stati Uniti non avrebbero rinunciato a quella che consideravano la loro “zona di influenza” e a tutti i vantaggi materiali che offriva.

Era chiaro che l’intenzione degli Stati Uniti era quella di continuare ad occupare una zona che rappresenta poco meno di un terzo della Siria, un area ricca di risorse energetiche e con una agricoltura fiorente.

Il tentativo avventato e non riuscito del leader curdo iracheno Masoud Barzani di dichiarare uno stato indipendente in Iraq ha poi messo fine al sogno curdo di unire il Rojava con il Kurdistan iracheno.

Con l’arrivo del nuovo presidente Donald Trump arrivava anche la promessa di un ritorno a casa delle truppe americane in Medio Oriente. Trump definiva il nord-est della Siria come “terra di morte e di sabbia”. Se ne sarebbe andato, quindi, a meno che la zona non gli avesse offerto dei guadagni. Gli stati arabi coinvolti nella guerra siriana che avevano finanziato jihadisti e ribelli non avevano più interesse a spendere soldi e a fornire armi. Non erano più disposti a pagare Trump perché tenesse in Siria le proprie truppe.

Trump ha detto che i curdi siriani “ non sono grandi combattenti ” e in più avevano bisogno che suoi aerei  sgombrassero la strada per poter combattere l’ISIS. Così Trump è riuscito a ridicolizzare il loro ruolo ma soprattutto tutti i loro combattenti uccisi nella guerra all’ISIS nella capitale del “Califfato”, Raqqa.

I curdi non avrebbero mai immaginato che gli Stati Uniti li avrebbero traditi nonostante l’esperienza del 1975. E questo è stato il loro secondo errore. I leaders militari curdi hanno cercato, invano, di convincere i loro leaders politici a dialogare seriamente con Damasco. Nei fatti però questi sospendevano i negoziati e preferivano ancora una volta affrontare l’attacco turco piuttosto che lavorare con il governo siriano. Hanno affidato le loro speranze alla comunità internazionale e ai mezzi di informazione occidentali che hanno infatti dato un gran supporto…verbale. Ma non è certo sufficiente a fermare l’attacco turco che infatti procede rapidamente.

Trump vede i curdi come dei mercenari che ha comprato e pagato. Poiché i loro servizi non vengono più richiesti, lui è pronto ad andarsene favorendo la Turchia. La loro manodopera non serve più a Trump e quindi li abbandona.

I curdi per anni hanno fatto da scudo ai soldati di Trump in al-Hasaka e Qamishli e adesso pensano, grazie ai “social media” e ai mezzi di informazione, di poter fargli cambiare idea. Ma non hanno più alleati che combattono con loro e neppure le montagne li proteggono. Le loro scelte sbagliate, nel consegnare un territorio che non era loro, li hanno fatti diventare i grandi sconfitti di oggi. L’annuncio del ritiro americano, dato con un brevissimo preavviso, è stata una doccia fredda per loro che hanno dovuto chiedere a Damasco di venire a proteggerli dall’avanzata turca. Era arrivato il momento di svegliarsi e capire che era l’unica opzione rimasta. Non è affatto scontato però che i curdi siano in grado di cambiare la loro strategia di sempre.

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